La vulnerabilità tecnologica dell'Europa è emersa con prepotenza durante la pandemia, quando l'interruzione delle catene di approvvigionamento ha costretto i costruttori automobilistici a fermare le linee di montaggio per la mancanza di chip da pochi euro. Quello che per decenni è rimasto un componente invisibile, nascosto dentro smartphone e centraline, è diventato improvvisamente un problema geopolitico di prima grandezza. La scoperta è stata scomoda: gran parte dei semiconduttori avanzati che alimentano l'economia europea nasce in un'unica area geografica, Taiwan, e soprattutto negli stabilimenti di un solo colosso, la Taiwan Semiconductor Manufacturing Company.
Il monopolio taiwanese che tiene in ostaggio l'Occidente
La concentrazione produttiva a Taiwan non è frutto del caso, ma di una scelta industriale strategica avviata alla fine degli anni Ottanta. TSMC ha creato un modello di business rivoluzionario: le grandi aziende tecnologiche come Apple o Nvidia progettano i chip ma non li producono direttamente, affidando la produzione fisica alle "fonderie" specializzate. Nel tempo, sempre più imprese hanno chiuso le proprie divisioni produttive interne, preferendo delegare la parte più complessa e costosa del processo. Questo ha trasformato Taiwan in un punto nevralgico insostituibile per l'intera economia globale.
Il problema si è amplificato con l'esplosione della domanda legata allo smartworking durante la pandemia e, successivamente, con la corsa all'intelligenza artificiale. I supercomputer per la ricerca, i sistemi di guida autonoma e le infrastrutture digitali necessitano di semiconduttori estremamente potenti, che solo pochissime fabbriche al mondo possono realizzare. La vicinanza geografica tra Taiwan e la Cina, in un contesto politico sempre più teso, ha reso evidente il rischio: un conflitto nello Stretto di Taiwan potrebbe paralizzare settori cruciali come automotive, sanità ed energia in tutta Europa.
Dresda diventa il laboratorio della sovranità tecnologica europea
Per ridurre questa pericolosa dipendenza senza smantellare una filiera globale che fino a ieri garantiva efficienza, l'Unione Europea ha varato l'European Chips Act, mobilitando circa 43 miliardi di euro per raddoppiare la quota continentale nella produzione mondiale entro il 2030. Ma la vera scommessa industriale si gioca a Dresda, in Sassonia, dove TSMC sta costruendo un impianto da oltre 10 miliardi di euro in joint venture con Bosch, Infineon e NXP. La società veicolo, European Semiconductor Manufacturing Company, punta ad avviare la produzione nel 2027, all'interno della cosiddetta Silicon Saxony, un ecosistema industriale che combina ricerca e sostenibilità.
La scelta di Dresda non è casuale: la zona ospita già un tessuto consolidato di microelettronica, con stabilimenti Infineon e Bosch specializzati in chip per l'automotive. Il nuovo impianto non produrrà i semiconduttori più sofisticati per l'intelligenza artificiale, ma dispositivi "maturi" e certificati destinati ad automobili, macchinari industriali ed elettrodomestici, proprio il segmento dove i colli di bottiglia hanno causato i danni maggiori all'economia europea negli ultimi anni.
Le difficoltà nascoste dietro il trasferimento tecnologico
Dietro le immagini patinate dei cantieri, però, si nasconde una realtà molto più complessa. Trasferire in Europa l'intera filiera di fornitori specializzati che gravitano attorno a TSMC si sta rivelando un'impresa titanica. Prendiamo il caso di Taiwan Puritic Corporation, che fornisce i sistemi di tubazioni per i gas ultra-puri nelle camere bianche: senza questi componenti, gestiti con precisione assoluta, la produzione si fermerebbe immediatamente. Ma chi deve aprire una filiale tedesca si scontra con procedure di visto complesse, contratti di lavoro da adattare a regole diverse, barriere linguistiche e un mercato del lavoro dove gli ingegneri preferiscono aziende locali piuttosto che società straniere che richiedono disponibilità 24 ore su 24 e lunghe trasferte in Asia.
Secondo manager taiwanesi della rete di imprese che collaborano con TSMC, servono mesi per trovare un ingegnere tedesco qualificato e disponibile, nonostante l'urgente necessità di competenze tecniche elevate. I tecnici taiwanesi ottengono visti di tre anni, fondamentali per l'avvio ma insufficienti per garantire continuità, a meno di non supportare anche il trasferimento delle famiglie. Perfino affittare uffici vicino all'aeroporto di Dresda richiede quasi un anno, per la difficoltà di interagire con proprietari poco abituati ad aziende straniere del settore microelettronico.
L'automotive europeo tra fragilità e opportunità
Il settore che più ha sofferto la crisi dei semiconduttori è l'automotive, colonna portante dell'industria europea. Le auto moderne sono computer su ruote: ogni veicolo contiene decine, talvolta centinaia di microchip per controllo motore, gestione batteria, sistemi di sicurezza, sensori e connettività. I costruttori europei avevano adottato il modello del "just in time", riducendo al minimo le scorte per contenere i costi. Quando la pandemia ha colpito la catena globale, il sistema ha mostrato tutta la sua fragilità: linee di montaggio in Germania, Francia, Italia e Spagna fermate non per mancanza di acciaio, ma per l'assenza di un componente elettronico dal costo marginale ma funzionalmente essenziale.
La situazione si è complicata ulteriormente con il caso Nexperia, uno dei principali produttori europei di chip per l'automotive controllato da un gruppo cinese. Il governo olandese è intervenuto prendendo il controllo della società per motivi di sicurezza economica, innescando uno scontro che ha portato al blocco delle spedizioni verso l'impianto cinese di packaging e test. Per l'industria automobilistica europea è stato un campanello d'allarme fortissimo: una parte significativa dei chip prodotti in Europa viene infatti inviata in Asia per la fase finale di confezionamento, per poi tornare come componenti pronti all'uso.
La partita a tre tra Taiwan, Stati Uniti ed Europa
Mentre l'Europa cerca faticosamente di costruire la propria autonomia, Taiwan è stretta tra pressioni americane e timori interni. TSMC ha annunciato investimenti da 100 miliardi di dollari in quattro anni per espandere gli impianti in Arizona, portando il totale degli impegni negli Stati Uniti a circa 165 miliardi. L'amministrazione statunitense ha spinto esplicitamente in questa direzione, minacciando dazi elevati in caso di mancata collaborazione e accusando Taipei di investire troppo poco nella propria difesa. Il presidente taiwanese Lai Ching-te ha promesso di aumentare la spesa militare oltre il 3% del PIL per rispondere a queste pressioni.
All'interno di Taiwan, però, la scelta di portare processi produttivi avanzati negli Stati Uniti preoccupa chi considera il settore dei semiconduttori uno "scudo di silicio": l'idea che il ruolo insostituibile dell'isola nelle catene globali riduca la probabilità di un'aggressione militare cinese. Se TSMC investe massicciamente all'estero, alcuni temono che questo scudo si indebolisca. L'azienda risponde che le decisioni sono dettate dal mercato e che gli impianti più avanzati resteranno comunque a Taiwan.
Le sfide strutturali del Chips Act europeo
L'European Chips Act, approvato nel 2023, punta a portare la quota europea nella produzione globale dal 10 al 20 per cento entro il 2030. Il piano prevede di rafforzare ricerca e innovazione, supportare economicamente la costruzione di nuove "mega-fab" e istituire meccanismi di intervento rapido per prevenire future crisi. Tuttavia, trasformare strategie ambiziose in risultati concreti si sta rivelando difficile, con tempi incompatibili rispetto alla velocità del settore.
Le sfide principali sono almeno tre. La prima è la burocrazia: ottenere permessi edilizi, autorizzazioni ambientali e visti per il personale chiave richiede tempi che scoraggiano investitori abituati a procedure più snelle altrove. Secondo alcuni esperti, costruire una fabbrica di chip in Europa può costare quasi il doppio rispetto a Taiwan, anche per standard edilizi più rigidi e costo del lavoro superiore. La seconda riguarda le competenze: servono non solo ingegneri altamente qualificati, ma anche tecnici, chimici ed esperti di clean room, figure su cui l'Europa sconta un ritardo storico. La terza è il coordinamento politico: senza una regia forte, il rischio è una competizione interna tra Stati membri per attrarre investimenti, invece di una strategia condivisa.
Il futuro tecnologico si gioca sui semiconduttori
La crisi dei chip non è un incidente passeggero, ma il sintomo di una trasformazione profonda. I semiconduttori sono diventati l'infrastruttura invisibile su cui poggiano automotive, energia, difesa, sanità e democrazia digitale. Decidere dove e come vengono progettati e prodotti significa decidere chi avrà voce in capitolo sul futuro tecnologico del pianeta. Nei prossimi mesi capiremo se l'Europa sarà riuscita a trasformare le lezioni dolorose degli ultimi anni in una nuova capacità di produrre, non solo consumare, tecnologia critica. Se ci riuscirà, Dresda potrebbe entrare nelle mappe di chiunque si chieda da dove arriva, concretamente, l'intelligenza che fa funzionare il mondo digitale.