Il braccio di ferro tra Roma e il colosso americano KKR sulla questione della banda ultralarga italiana ha varcato i confini nazionali per approdare direttamente nei corridoi di Bruxelles. Fibercop, la società controllata dal fondo statunitense che gestisce la rete di telecomunicazioni ex Tim, ha infatti presentato alla Commissione Europea un reclamo formale che vale potenzialmente 4,5 miliardi di euro, accusando il Governo italiano di aver violato le regole comunitarie sulla concorrenza attraverso aiuti di Stato illegittimi destinati al concorrente Open Fiber. Una mossa che segna un punto di non ritorno nelle già difficili trattative per la tanto sbandierata rete unica nazionale.
Un reclamo che blocca il progetto di fusione
La denuncia depositata lunedì scorso presso le istituzioni europee rappresenta molto più di un semplice ricorso tecnico. Si tratta di una dichiarazione aperta di guerra commerciale che allontana definitivamente la prospettiva di unificare le infrastrutture in fibra ottica del Paese. Secondo fonti vicine alla vicenda, la società sarebbe stata obbligata a procedere per tutelare gli interessi di tutti gli stakeholder, avendo riscontrato quelle che definisce "anomalie e preoccupazioni" nella gestione dei fondi pubblici destinati alla digitalizzazione.
Il paradosso è evidente: tra gli azionisti di Fibercop figura lo stesso Ministero del Tesoro italiano con una quota del 16,4%, mentre KKR detiene il 37,5%. Una situazione che vede Roma contemporaneamente dentro e fuori dalla disputa, con il governo che si trova a fronteggiare una società di cui è parzialmente proprietario.
I 660 milioni della discordia e non solo
Al centro del contendere ci sono innanzitutto i 660 milioni di euro stanziati dall'ultima legge di bilancio per il riequilibrio delle concessioni nelle cosiddette aree bianche, quelle zone del territorio nazionale meno appetibili commercialmente. Ma l'elenco delle contestazioni è molto più lungo e articolato. Fibercop contesta anche sovvenzioni dirette, proroghe di concessioni già esistenti, garanzie statali su linee di credito e la riduzione o sospensione delle penali legate ai ritardi accumulati da Open Fiber nell'attuazione dei piani di copertura in fibra ottica finanziati con denaro pubblico.
La tesi di fondo sostenuta dalla società americana è che tutte queste misure abbiano sostanzialmente trasferito i rischi economici e finanziari da Open Fiber direttamente sulle spalle dello Stato italiano, violando così le normative europee sulla concorrenza. E aggrava la situazione, secondo Fibercop, il fatto che nessuna di queste misure sarebbe stata formalmente notificata a Bruxelles come richiesto dalle procedure comunitarie.
I ritardi cronici dei piani nazionali
La situazione di Open Fiber sul campo è effettivamente critica. L'azienda è impegnata da circa dieci anni nel Piano BUL per la copertura delle aree bianche, un progetto per il quale non risulterebbe notificato a Bruxelles l'allungamento della concessione. Contemporaneamente lavora al Piano Italia 1 Giga, finanziato con i fondi del PNRR e condiviso proprio con Fibercop, che accumula ritardi significativi rispetto alla tabella di marcia originaria.
Il Governo ha già dovuto autorizzare il taglio di 700mila civici che Open Fiber non riuscirà a coprire nei tempi previsti, e attende ora il via libera di Bruxelles per questa revisione del Piano, che secondo indiscrezioni sembra essere favorevolmente valutata dalle istituzioni europee. Il ministro agli Affari Europei Tommaso Foti ha pubblicamente ammesso che si tratta dell'unico progetto digitale del PNRR a creare problemi concreti di attuazione.
Le conseguenze possibili per Open Fiber
Se la Commissione Europea dovesse accertare l'esistenza di aiuti di Stato illegittimi, le conseguenze per Open Fiber sarebbero devastanti. La società sarebbe costretta a restituire tutti i fondi ricevuti irregolarmente e non potrebbe più beneficiare di sostegni pubblici futuri. Una prospettiva che metterebbe seriamente a rischio la sopravvivenza stessa dell'azienda, già gravata da un debito di circa 6 miliardi di euro accumulato in un decennio di attività e da una perdita di 364 milioni di euro registrata solo nell'ultimo anno.
Le previsioni indicano che Open Fiber raggiungerà un flusso di cassa positivo non prima del 2028, un orizzonte temporale che si allontanerebbe ulteriormente in caso di obbligo di restituzione degli aiuti contestati.
La scommessa italiana di KKR si complica
Dietro questa battaglia legale si nasconde anche la difficile situazione di KKR in Italia. Il fondo americano aveva acquisito la rete Tim nel luglio 2024 in un'operazione da 19 miliardi di euro, una delle più grandi nel settore delle telecomunicazioni europee. Ma la scommessa si sta rivelando più complicata del previsto, come evidenziato anche dal Financial Times che due giorni fa ha dedicato un lungo articolo alle difficoltà di Fibercop.
Il principale problema riguarda l'emorragia di clienti: nella prima metà del 2025 l'azienda ne ha persi 364mila, un tasso di abbandono accelerato che ha impedito la distribuzione dei dividendi agli azionisti. Per KKR, procedere alla fusione con Open Fiber nelle condizioni attuali significherebbe appesantire ulteriormente una società già in difficoltà e compromettere il proprio rating creditizio.
L'earn out e i veri ostacoli alla fusione
Tra gli elementi in discussione c'è anche il cosiddetto earn out da 2,5 miliardi di euro che il consorzio guidato da KKR dovrebbe versare in caso di unione tra Fibercop e Open Fiber, come previsto dagli accordi di spin-off della rete. Tuttavia, secondo fonti qualificate, questo non rappresenterebbe l'ostacolo principale per il fondo americano, che si dichiarerebbe disposto a sobbarcarsi la spesa solo in cambio di garanzie concrete di rientro dall'investimento. Garanzie che, allo stato attuale, non sembrano esserci.
Al momento non risulta alcun memorandum tra le due aziende per procedere alla fusione, né sono chiari i termini o il perimetro di un'eventuale operazione di merger. La distanza tra le posizioni di KKR e del Governo italiano appare oggi più ampia che mai, con il fondo statunitense fermamente contrario alla spinta di Roma verso la creazione della rete unica attraverso l'unione con Open Fiber, controllata dall'investitore statale CDP e dal fondo australiano Macquarie.